Le api selvatiche esistono ancora (Studio U.S.A.)

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A survivor population of wild colonies of European honeybees in the northeastern United States: investigating its genetic structure

Una popolazione di colonie selvagge di api europee sopravvissuta negli Stati Uniti nord-orientali: indagando sulla sua struttura genetica

Thomas D. Seeley, David R. Tarpy, Sean R. Griffin, Angela Carcione & Deborah A. Delaney

Traduzione di Alberto Pastorino

wild-hive

(…) I risultati indicano che la popolazione all’interno della foresta sia quasi certamente autosufficiente, senza essere mantenuta da flussi dalle colonie allevate nella zona circostante.

Due prove principali: la prima è che nelle circostanze le colonie allevate sono solo due.

La densità delle colonie selvatiche era di 1/km2, quindi su un’area di 200 km2 c’erano approssimativamente 200 colonie selvatiche e 40 domestiche.

Inoltre le 22 colonie dell’apiario 1 sono rimaste solo nell’estate 2011 perché nell’autunno hanno subito danni da parte di un orso nero (…)

Articolo completo e in lingua originale: http://link.springer.com/article/10.1007/s13592-015-0355-0

Una parte dell’articolo:

Una popolazione sopravvissuta di colonie selvatiche di ape europea negli Stati Uniti nord-orientali: investigazione della sua struttura genetica

 

Apidologie Marzo 2015

Thomas D. Seeley, David R. Tarpy, Sean R. Griffin, Angela Carcione, Deborah A. Delaney

 

Abstract – Esiste una convinzione diffusa che le colonie selvatiche di ape europea siano state eradicate in Europa e in Nord America, uccise dai virus diffusi dall’acaro ectoparassita introdotto Varroa destructor. In realtà, comunque, diverse popolazione di colonie selvatiche di ape mellifera in Europa e N america hanno persistito a dispetto dell’esposizione alla Varroa. Per favorire la comprensione di come questo sia accaduto, noi abbiamo testato se le api in una di queste popolazioni di colonie selvatiche – quelle che vivono nella e intorno la Arnot Forest (NY, USA) – siano geneticamente distinte dalle api della più vicine colonie gestite. Abbiamo trovato che le api della Arnot Forest fossero geneticamente distinte dai due apiari entro 6 km dalla foresta. Evidentemente, la popolazione della Arnot Forest è auto-sufficiente. Questi risultati indicano che se ad una popolazione chiusa di colonie di api è permesso di vivere naturalmente, essa svilupperà un relazione bilanciata con i suoi agenti di malattia. Infatti, è probabile che diventi ben adattata al suo ambiente locale per intero. Noi indichiamo quattro vie per modificare le pratiche di apicoltura per aiutare le api a vivere con una salute maggiore.

 

  1. Introduzione

Si crede ritiene comunemente che le popolazioni che si auto-sostengono di colonie selvatiche di ape europea non esistano più in Europa e N. America e che ogni colonia selvatica di ape europea ancora rimasta in quelle regioni venga da sciami scappati dagli alveari degli apicoltori (Moritz et al. 2007; Potts er al 2010). Una ragione per questa convinzione è che molte parti d’Europa hanno vissuto un intensa deforestazione per creare terreni agricoli, così che rimangono pochi vecchi alberi con larghe cavità – i siti di nidificazione naturali delle api (Oleska et al. 2013). Anche nelle foreste naturali preservate in Europa, dove le cavità da nido per le api dovrebbero essere molte, studi recenti hanno mostrato che la densità totale di colonie sembra combaciare con la densità delle colonie gestite (Moritz et al. 2007; Jaffè et al. 2009). Questo indica che le colonie selvatiche siano rare persino in queste aree naturali. Presumibilmente, questo è dovuto a parassiti e patogeni, in particolare Varroa destructor e i virus associati. Diversi studi hanno mostrato che se una colonia gestita di api europee in Europa o N. America non è trattata per la V. destructor, allora in un anno o due la popolazione di acari infestanti esploderà e la colonia morirà (Korpela et al. 1992; Kraus and Page 1995a; Fries et al. 2006).

E’ ragionevole aspettarsi che, per questo motivo, le popolazione di colonie di api che vivono in natura, e perciò non stiano ricevendo trattamenti di controllo degli acari, sarebbero scomparse. Questa previsione sembra essere supportata da uno studio di colonie selvatiche nella California centrale condotta nel 1990-94, poco dopo l’arrivo della V. destructor, il quale ha scoperto che questa popolazione di colonie era stata quasi eradicata (Kraus and Page 1995b). Allo stesso modo, una popolazione di colonie selvatiche in Arizona era stata decimata tra il 1990 e il 1998 quando era stata invasa per la prima volta dall’acaro tracheale (?) (Acarapis woodi) e poi dalla V. destructor (Loper et al. 2006). Inoltre, uno studio condotto in Louisiana nel 1991-2006 scoprì un ripido calo del tasso di catture di sciami e nella longevità degli sciami poco dopo l’arrivo di V. destructor nel 1993 (Villa et al. 2008).

Recentemente, comunque, sono emersi diversi report dall’Europa e N america riguardo a popolazioni di colonie selvatiche di api europee che hanno persistito per almeno 10 anni nonostante fossero infestate con V destructor: Svezia (Fries et al. 2006), France (Le Conte et al. 2007), e gli USA (Seeley 2007). C’è anche il fatto che le api europee hanno coesistito con Varroa nel estremo oriente della Russia fin dalla metà dell’800 (Rinderer et al. 2001). L’evoluzione di una relazione ospite-parassits bilanciata tra le api e i loro parassiti è in realtà attesa dove molte colonie vivono in natura, per questa impostazione ecologica, dovrebbe esserci una forte selezione naturale per le api che possiedano resistenza alle malattie. Inoltre, poiché le colonie di api che vivono in natura in Europa e N america sono ampiamente distanziate tra loro (Galton 1971; Seeley 2007), ci potrebbe essere poco movimento di api tra le colonie, così ci sarebbe poca trasmissione orizzontale di patogeni e parassiti tra le colonie selvatiche. Se la trasmissione verticale (dai genitori alla prole) di agenti di malattia è la regola tra le colonie selvatiche di api, allora dovrebbe esserci selezione per l’assenza di virulenza nei patogeni e nei parassiti che vivono in queste colonie (Fries and Camazine 2001; Schmid-Hempel 2011).

Una popolazione di colonie selvatiche di api europee che sta persistendo nonostante le infestazioni di V destructor vive nella (e intorno) la Arnot Forest nella parte centrale dello Stato di New York. Il primo monitoraggio delle colonie che vivono in questa riserva per la ricerca è stato fatto nel 1978 (Visscher and Seeley 1982), più di 10 anni prima dell’arrivo della V. destructor nello Stato di NY, e un secondo monitoraggio è stato fatto nel 2002 (Seeley 2007), circa 10 anni dopo l’arrivo di questi acari nella regione. Sorprendentemente, i due censimenti produssero essenzialmente le stesse stime del numero di colonie nella foresta: 1978: 18 colonie; 2002, 16 colonie (vedi sotto). Nel 2003, le colonie della Arnot Forest vennero testate per l’infestazione di V. destructor catturando sciami nella foresta con alveari come esche e poi ispezionando le colonie catturate alla ricerca di acari. Tutte erano infestate con V. destructor, ma le loro popolazioni di acari non crescono ad alti livelli nella tarda estate (Seeley 2007). Gli studi sulla dinamica di popolazione di V destructor nelle colonie selvatiche di  api in Svezia (Gotland) e Francia (Avignon) hanno trovato a loro volta bassi tassi di crescita della popolazione di acari e corrispondenti bassi carichi di acari (Fries et al. 2006; Le Conte et al 2007).

Le popolazioni di api europee selvatiche che sopravvivono in Europa e N America sono importanti perché comprendere la genetica ed i fattori ecologici che permettono loro di persistere potrebbero rivelare nuovi meccanismi di resistenza per futuri programmi di allevamento di api e potrebbero indicare cambiamenti vantaggiosi nelle pratiche di apicoltura. Un primo passo critico per esplorare queste possibilità è determinare se ogni data popolazione di colonie di api selvatiche si auto-sostenga realmente o stia semplicemente persistendo tramite l’immigrazione di sciami scappati da colonie di api gestite. Noi ci siamo posti questa domanda per le api della Arnot Forest determinando se le colonie selvatiche nella e intorno la foresta fossero geneticamente distinte dalle colonie selvatiche gestite più vicine fuori dalla foresta. Se così fosse, allora ci sarebbe una forte evidenza che questa popolazione sia realmente sopravvivendo da sola.

 

  1. Materiali e metodi

 

2.1 Sito di studio

Abbiamo condotto il nostro studio entro l’area circolare (8 km di raggio) di 200 km2 di territorio, al cui centro si trova l’Arnot Forest, una riserva a fini di ricerca di 17 km2 di proprietà della Cornell University. Quest’ampia area di studio è situata in una regione accidentata, elevata (310 – 620 m ??? questa sarebbe di quota?) nel sud della contea di Tompkins e nel nord delle contee di Chemung e Schuyler, NY, USA (42° 17′ N, 76° 39′ W) (vedi la Figura 1). Essa è in prevalenza coperta di foreste (82% basato su analisi GIS) e diffusamente abitata (2.30 case/km2, sulla base delle mappe dell’US Geological Survey). La copertura vegetale della Arnot Forest è principalmente (96%) foresta che varia da stadi di foresta antica a foreste mature di legno tenero e duro (see fig 3 in Odell et al. 1980). Il territorio che circonda la foresta, che include le unite Newfield e Cliffside State Forests, è forestato in modo simile, essendo stato protetto dalla Stato di NY, o abbandonato dall’agricoltura (o entrambi) negli ultimi 100 anni.

 

2.2 Campionamento delle api operaie dalle colonie selvatiche e dalle gestite

In luglio e agosto 2011, abbiamo localizzato le colonie selvatiche di api che vivono nella parti nordorientale, centrale e sudorientale dell’Arnot Forest usando la tecnica della bee-lining (allineamento di api lett.) (Visscher and Seeley 1989). Noi abbiamo iniziato ogni ricerca di una colonia catturando in una “bee box” approssimativamente 10 operaie dai fiori di una singola radura della foresta, fornendo alla api catturate sciroppo di zucchero (2.0 mol/L) in un favo all’interno del box per le api, e poi rilasciando le api dopo che si erano caricate di sciroppo di zucchero. Dopo essere volate a casa, alcune api sono ritornate alla cassetta per raccogliere più cibo, e poi alcune di queste api hanno reclutato altre api portandole alla nostra ricca fonte di cibo.  IN seguito, noi abbiamo marcato (con marcature colorate individualmente identificabili) 10-20 delle api che visitavano il pettine, a quel punto, abbiamo iniziato a misurare la loro direzione di scomparsa e i loro tempi di ritorno, per stimare la distanza e la direzione dal loro nido. Una volta ottenuta questa informazione abbiamo intrappolato circa 10 di queste api all’interno della cassetta, abbiamo spostato il tutto 100-200 m fino ad un’altra radura nella direzione dell’alveare, e rilasciato le api in modo che potessero continuare a foraggiarsi alla cassetta, ma ora nel nuovo sito. Abbiamo continuato in questo modo, passo a passo, fino alla posizione dell’alveare. Quando ci siamo avvicinati e abbiamo avuto centinaia di api dalla colonia che visitavano eccitate la cassetta, abbiamo raccolto un campione di circa 100 api (tutte operaie) in etanolo al 95%. Noi siamo sicuri di aver localizzato la maggior parte, se non tutte, le colonie nella regione della Arnot Forest che abbiamo monitorato, perché alla fine le linee di api (inteso come metodo, con direzione di scomparsa delle marcate) che abbiamo iniziato da svariate radure in queste regioni puntavano costantemente verso colonie che avevamo già localizzato. La figura 2 in Seeley (2007) illustra questo processo di monitoraggio a saturazione.

A luglio e agosto 2011, abbiamo cercato colonie gestite di colonie di api che vivono fuori dalla Arnot Forest. Abbiamo ristretto la nostra ricerca a questa regione perché gli sciami raramente si disperdono su distanza maggiori di 3 km (Lindauer 1995; seeley and Morse 1977) e i fuchi (in inglese si chiamano drones) raramente volano per più di 6 km per accoppiarsi con una regina (Ruttner and Ruttner 1966, 1972), quindi è improbabile che ci sia stato un forte flusso genico materno (tramite sciami) o paterno (tramite fuchi) nella Arnot Forest dalle colonie gestite situate a più di 6 km di distanza. Abbiamo cercato colonie gestite in quattro modi: (1) Abbiamo contattato il club locale di apicultura (Finger Lakes Beekeepers), (2) Abbiamo parlato con i due apicultori commerciali situati entro 30 km dalla foresta /Tremblay Apiaries, Spencer, NY, and Beeman Apiaries, Owego, NY), (3) Abbiamo guidato lentamente lungo tutte le strade entro 6 km dalla foresta, e (4) abbiamo studiato delle foto aeree (Google Earth). Abbiamo trovato solo due apiari (da qui in avanti riferiti come apiario 1 e 2), entrambi appartenenti allo stesso apiculture. Abbiamo raccolto approssimativamente 100 api, conservate in etanolo al 95%, da ciascuna delle 10 colonie di entrambi gli apiari, che contenevano 22 e 24 colonie. Poiché abbiamo cercato apiari in maniera esaustiva entro la nostra area di studio di 200 km2, usando quattro diversi metodi, siamo sicuri che i due apiari trovati fossero gli unici presenti entro l’area di studio.

 

2.3 DNA analyses

 

2.3.1. DNA extraction

Abbiamo fatto estrazioni separate di DNA di quattro api operaie per ciascuna delle 10 colonie in ciascun gruppo (Arnot Forest, apiario 1 e apiario 2), per cui 40 api totali per ciascun gruppo e 120 in tutto. Le zampe posteriori di ciascuna ape sono state amputate, poste in un tubo per microcentrifugazione, sottoposte ad una serie di tamponi, e centrifugate per ottenere la lisi delle celle e rilasciare il DNA (protocollo per Qiagen Dneasy Blood and Tissue Kit). Ogni estratto è stato conservato a – 80 ° C.

 

2.3.2. Microsatellites

Abbiamo sottoposto le quattro estrazioni di DNA da ciascuna colonia a PCR a 12 loci microsatellitari variabili: A24, A28, A79, A88, A107, Ap43, Ap66, Ap81, AC006, B124 (Estoup et al 1995; Garnery et al. 1992; Solignac et al. 2003), e HB-THE-03 e HB-THE-04 (Shaibi et al. 2008), usando le condizioni di reazione precedentemente riportate. Il volume finale della reazione per campione era circa 10 μL e conteneva 5 μ L di PCR Master Mix (Promega, Madison, WI), 1.0 – 2.5 μ L di primer dye-labeled fluorescente, 0.9 L di acqua senza nucleasi, e 2 L di estratto di DNA. Ogni estrazione è stata amplificata per un ciclo a 95° per 7 min; poi 30 cicli a  95°C per 30s, 54°C per 30s, e 72°C per 30s; alla fine un’estensione di 72°C per 60 minuti. Abbiamo effettuato l’amplificazione in un sequenziatore automatico Applied Biosystems 3730 e assegnato un punteggio alla dimensione dei frammenti di microsatellite utilizzando GeneMapper.

 

2.3.3. Profili genetici

Usando una varietà di software di analisi, abbiamo eseguito quattro analisi indipendenti per ciascun gruppo di api (A. F.,  apiario 1 e 2); ogni analisi era basata sui profili genetici di 10 api differenti (delle 40 processate per ciascun gruppo) in ciascun gruppo. Primo, abbiamo usato HP-Rare (Kalinowski 2005) per calcolare il numero medio di alleli per locus, il numero di alleli privati, la ricchezza allelica, e l’eterozigoità attesa. Secondo, abbiamo utilizzato GENEPOP versione 4.0 (Raymond and Rousset 1995; Rousset 2008) per cercare gli scostamenti dall’equilibrio di Hardy-Weinberg, lo squilibrio dal linkage genotipico, e differenziazione genetica. Terzo, abbiamo usato GENETIX versione 4.04 (Belkhir et al. 2002) per eseguire un analisi di corrispondenza fattoriale. In conclusione, abbiamo determinato le frequenze alleliche e le frequenze dei singoli loci per ogni gruppo utilizzando GENETIX, e abbiamo usato FSTAT (Goudet 2001) per ottenere quattro stime della Fst (distanza genetica) per ciascuna coppia di gruppi.

 

2.3.4. DNA Mitocondriale

Abbiamo usato gli stessi estratti di DNA da ciascuna colonia per determinare l’antichità della linea materna. La regione intergenica tra i geni COI e COII del DNA mitocondriale è stata amplificata usando la PCR e i primer E2 (5′ – GGCAGATA – AGTGCATTG – 3′) E H2 (5′ – CAATATCATTGAT-GACC – 3′) seguendo il protocollo seguito da Garnery et al. (1992).

 

Da qui solo sintesi

  1. Discussione

I risultati indicano che la popolazione al’interno della foresta sia quasi certamente autosufficiente, senza essere mantenuta da flussi dalle colonie allevate nella zona circostante.

Due prove principali: la prima è che nelle circostanze le colonie allevate sono solo due.

La densità delle colonie selvatiche era di 1/km2, quindi su un’area di 200 km2 c’erano approssimativamente 200 colonie selvatiche e 40 domestiche.

Inoltre le 22 colonie dell’apiario 1 sono rimaste solo nell’estate 2011 perché nell’autunno hanno subito danni da parte di un orso nero.

 

Quindi il rapporto tra allevate e selvatiche cala a 20/220 = 9%. Quindi le colonie domestiche producono solo una piccola parte di sciami ogni anno.

Il secondo tipo di prova è ancora più robusto, in quanto sono state trovate differenze genetiche sostanziali tra le colonie nella Foresta e quelle allevate. Prova di un ridotto input genetico da parte delle allevate nei confronti delle colonie selvatiche.

Questa scoperta rende molto interessante lo studio delle colonie selvatiche per comprendere come abbiano raggiunto una coesistenza stabile con i loro parassiti e patogeni. Risolvere questo mistero è molto importante in questo momento, quando molti apicoltori in Europa e N America dipendono dal trattamento delle loro api con antibiotici o pesticidi. Questo approccio, comunque, non è sostenibile perché porta all’evoluzione di resistenza da parte di parassiti e patogeni (Evans, 2003), può portare alla contaminazione nei prodotto delle api (Karazafiris et al. 2008) e può avere effetti negativi sulle api stesse (Burley et al. 2008).

La sopravvivenza delle api della foresta indica una forte selezione naturale nei confronti di api resistenti alla malattie, o di parassiti e patogeni poco aggressivi o di entrambi i fenomeni.

Questa selezione naturale è molto più probabile in un ambiente naturale, a causa dei trattamenti con antibiotici e pesticidi che impediscono la selezione di colonie resistenti alla malattia. Il sovraffollamento degli apiari è un altro fattore importante nel facilitare la trasmissione dei patogeni e parassiti.

In condizioni naturali la trasmissione è principalmente verticale, tra colonie madri a figlie (sciami), mentre in apicoltura la trasmissione può essere orizzontale tra colonie diverse, tramite comportamenti di spostamento di individui o furti tra colonie (Pfeiffer and Crailsheim 1998; Seeley and Smith in stampa). Per lo stesso motivo i patogeni in condizioni naturali si evolvono per essere virulenti in modo da permettere alle api di sciamare e trasmettersi così alla generazione successiva.

Sono stati tentati esperimenti di selezione artificiale, ma non sembra si siano raggiunti gli stessi risultati della selezione naturale.

In Francia e Svezia alcuni studi hanno dimostrato che il successo riproduttivo degli acari nelle colonie selvatiche era circa il 30 % inferiore rispetto alle colonie domestiche (Locke e Fries 2011; Locke et al. 2012). Curiosamente non c’era evidenza di una pulizia reciproca maggiore, che è la strategia utilizzata dall’ospite originario del parassita, l’Apis cerana.

Non si è potuto capire se la riduzione del successo riproduttivo fosse dovuta a maggior resistenza degli ospiti, minor resistenza dei parassiti o entrambe le cose.

Anche i fattori ambientali potrebbero aiutare le colonie selvatiche nella foresta.

Per esempio in uno studio intorno a Ithaca (New York), le cavità degli alberi in cui vivevano le colonie erano 25-50% inferiori in volume rispetto agli alveari artificiali (Seeley and Morse 1976). Perciò la dimensione della nidiata, il numero di api adulte, nidiata di operaie e di fuchi erano molto più ridotte rispetto alle colonie allevate.

Poiché gli acari si riproducono nelle celle delle nidiate, e di preferenza in quelle dei fuchi, il numero minore di celle potrebbe limitare il successo riproduttivo degli acari fornendo meno opportunità  spaziali di riproduzione.

Questo spiegherebbe la caratteristica trovata nelle colonie sopravvissute colonie dell’isola Gotland in Svezia: il numero di operai e di fuchi erano rispettivamente metà e 1/10 rispetto alle colonie di controllo (colonie tipiche attaccate da V. destructor in Svezia). (Locke and Fries 2011). Un’altra conseguenza delle cavità piccole è la frequenza di sciamatura, che può limitare lo sviluppo di varroa. Il 40-70 % delle operaie lascia l’alveare durante una sciamatura e poiché circa il 50 % degli acari sono su adulti significa che una colonia perde il 20 – 35% degli acari adulti ogni volta che avviene una sciamatura.

Poiché una colonia può avere molti sciami nel periodo di sciamatura, la popolazione di acari si può ridurre molto. Oltre a questo la sciamatura può dare il via ad un periodo di intesa rimozione di acari poiché per 1- 3 settimane non ci sono nidiate da allevare nella colonia. Questo periodo è dovuto al tempo necessario alla nuova regina per svilupparsi come un adulto, uccidere le sue rivali, accoppiarsi e iniziare a deporre le uova. Durante questo periodo senza larve gli acari né possono riprodursi né possono nascondersi in celle contenenti pupe, così soffrono di una decrescita del tasso di nascite e perciò forse un aumento di tasso di mortalità, essendo vulnerabili ai morsi delle api e rimosse (intese come pulite via, groomed) dal corpo degli ospiti.

 

Lo studio dimostra la sopravvivenza indipendente di colonie selvatiche di api europee negli USA, anche se non sembrano colonie originate dalle prime scappate ai coloni nel 1700 (quelle erano scure, provenienti dall’area europea a N delle Alpi).

L’autosufficienza di queste colonie indica l’inefficacia e il danno provocato dalle pratiche di apicoltura contro la V. destructor sulle colonie stesse, che favoriscono il mantenersi della letale espansione dei virus trasmessi dagli acari.

Quattro pratiche sembrano essere dannose:

1) trattamenti di controllo degli acari, che impediscono o limitano la selezione di api resistenti agli acari

2) Apiari affollati che favoriscono la trasmissione orizzontale dei parassiti e patogeni

3) Gestire le colonie in modo che siano innaturalmente grandi, con alto tasso di produzione di miele e ridotta frequenza di sciamatura

4)Spostamento delle colonie tra vari luoghi, che causa forte flusso genico il quale impedisce la selezione naturale, alterando le frequenze alleliche in popolazioni chiuse, e causa anche l’espansione rapida dei patogeni.

Queste pratiche probabilmente stanno impedendo l’azione della selezione naturale se api e parassiti, così come sui patogeni trasmessi dagli acari.

Gli apicoltori stanno anche probabilmente alterando l’adattamento genetico delle api al clima e alle stagioni dell’ambiente locale, riducendo ancora di più la vitalità delle colonie (Hatjima et al. 2014).

Più lavoro è necessario per testare queste idee, ma sembra probabile che permettendo ad una popolazione di colonie di api di vivere naturalmente senza interventi esterni questa evolverà una relazione bilanciata con gli agenti della malattia, e il suo ambiente come un solo insieme.

 

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